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PORCI E TROIE IN TERRA DI LAVORO E ANTICHI SAPORI DI CARNI ANDATE A MALE

Da oggi il nostro portale si arricchisce di una nuova rubrica di cultura: “Quattro passi nella Storia” , curata dal dr Rosario Di Lello, prestigioso ricercatore storico. Un nome che non ha certo bisogno di particolari presentazioni: già Premio Letterario Olmo, alcuni anni fa, ma soprattutto  una intera vita, è il caso di dire, fatta di ricerche di storia locale che rappresentano autentiche perle. Straordinario e lunghissimo il suo curriculum, che non staremo qui ad elencare. Basta seguirci e leggere i suoi originalissimi pezzi di cultura che ogni quindici giorni regala alla nostra testata  ma, soprattutto a voi lettori.

Il Direttore

Rosario Di Lello| La rubrica Quattro passi nella Storia è destinata, nel rispetto del fine divulgativo, non già allo specialista o, come si dice oggi: all’addetto ai lavori, bensì al lettore comune, insomma a quello che potremmo definire, senza offesa, il lettore della domenica mattina, il quale predilige l’articolo illustrato, di argomento suggestivo e breve tanto da poterlo scorrere e commentare con gli amici, al bar, nel tempo di un aperitivo.Questa rubrica risulterà costituita, dunque, da pezzi, non molto lunghi: a scadenza quindicinale; datati e collocati in pagine numerate. Essi faranno riferimento all’Evo Antico, al Medioevo e all’Evo Moderno; più in particolare, riguarderanno paesi di Terra di Lavoro; per una maggiore documentazione, riporteranno brani alla lettera, termini in dialetto nonché riferimenti bibliografici essenziali di agevole revisione.

PORCI E TROIE IN TERRA DI LAVORO E ANTICHI SAPORI DI CARNI ANDATE A MALE

  Negli ultimi giorni di dicembre e nei primi di gennaio si procedeva –e si procede, per quanto sempre più di rado– alla macellazione del maiale domestico; sicché, circa i prodotti tipici locali e gli antichi sapori, oggi tanto reclamizzati nelle sagre paesane, è opportuno menzionare le carni suine e le relative specialità ottenute, almeno un paio di secoli or sono in Terra di Lavoro, attraverso la conservazione. (1)

Le “verrigini propriamente dette delle Troje lattanti”, una volta asportate, si preparavano battendo in modo lieve tra i capezzoli per diffonderne il latte; tuffandole poi in acqua bollente per farlo rapprendere; sospendendole infine per qualche ora ad asciugare. A questo punto venivano trattate al pari della “parte inferiore del corpo che più si avvicina al ventre, e che si chiama volgarmente Ventresca”: si strofinavano con forza d’ambo i lati con sale in giusta quantità; si comprimevano con dei pesi per circa un mese, quindi si esponevano al fumo nelle cucine e poi si passavano in qualche luogo ventilato e all’ombra. Si consumavano lesse e per condire verdure cotte.

Il “capicollo” cioè “il filetto del porco per tutta la sua lunghezza”, veniva pulito accuratamente da ogni osso e, per quanto possibile, da ogni residuo di grasso; si sezionava in due o tre parti, si salava e si poneva in salamoia. Dopo di che si lavava con vino “generoso” e si “confettava“ con anice; si “vestiva con un budello grande e, sopra di questo, con carta”; si esponeva prima al fumo e poi al freddo. “Questa sorta di salumi era preparata con particolare delicatezza dalle Monache di Capua”.

Le “salsicce”, le “soppressate” e le “cervellate” si lavoravano alla stessa maniera. Tra salsicce e soppressate non v’era altra differenza che nel modo di tritare la carne, rispettivamente  in pezzi meno o più minuti e nel mescolarvi più o meno grasso. In ogni caso, la carne trita, aspersa di vino bianco e confettata con pepe “contuso” e finocchietto, si lasciava ammassata per alcune ore; quindi per le salsicce si insaccava in budella strette e per le soppressate nelle larghe; da ultimo, le une e le altre rimanevano esposte al fumo e poi ai venti. Le salsicce venivano consumate o bollite o crude e affumicate; le soppressate, crude e ben stagionate. Le cervellate essendo destinate a mangiarsi fresche, venivano condite con minor quantità di sale e con qualche aroma in più.

I “cotechini” erano fatti “nel modo stesso” delle salsicce, delle soppressate e delle cervellate, ma con gli avanzi di cotenne, membrane e grasso, tritati, confettati con semi di finocchio, pepe e coriandolo, ammassati e insaccati in budelli. Venivano bolliti, prima di essere consumati.

I “sanguinacci” si preparavano impastando il sangue con zucchero, latte, pinoli, pistacchi, confetture e cioccolato; insaccando nel budello e facendo cuocere in acqua bollente. La bontà, ossia il sapore, dipendeva dagli ingredienti aggiunti al sangue.

Le budella, inutilizzate, ripulite per bene, lavate con vino “generoso” e “confettate a larga mano con sale, pepe, semi di finocchio e anice”, venivano intrecciate, affumicate, essiccate al vento e, dopo qualche mese, consumate lesse.

I “prosciutti”, una volta salati e tenuti in soppressa, per 15 giorni e raddoppiando la compressione, erano, in molti luoghi alpestri dell’alta Terra di Lavoro, immersi in acqua bollente e, subito, sospesi ad una lunga pertica vi rimanevano esposti, a settentrione, all’azione del freddo; erano, perciò gustosi e ricercati. Inoltre, poiché nei luoghi montani aperti e ventilati, come Pietraroia, si usava, a causa del clima, una minore quantità di sale, il prodotto risultava ancor più dolce e saporito.

Le prelibatezze suine, insomma, quanto a tecnica di produzione erano tipicità non proprio di questo o di quel paese, ma di questo o di quel circondario, se non di tutto un distretto o di tutta  la provincia. Ma v’è dell’altro, quanto all’alimentazione: in quegli anni lontani i suini, in particolare se d’uso personale, non erano mangimati, ovvero allevati a mangime industriale, come si dice e, di solito, accade oggi, ma vivevano quasi allo stato brado nutrendosi di ghiande, frutta e tuberi e venivano governati al naturale, con vegetali di stagione; eppure, taluni allevatori, precorrendo i tempi e per fini di lucro, tenevano “or una, or più troje che le avvezza(va)no insieme co’ figli a nutrirsi ogni giorno dell’anno di umani escrementi”, col risultato che “la carne non regge(va) al sale, diventa(va) verminosa” e, quel ch’è peggio, procurava “sconcerto significante nella salute” del consumatore.Tanto, per concludere, con buona pace degli antichi sapori e dei prodotti tipici locali, oggi tanto reclamizzati in estive sagre paesane.

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1- Al riguardo, cfr. le relazioni d’epoca,  in C. Cimmino La Statistica del Regno di Napoli del 1811 (…) Caserta, ISRI, 1978, pp. 162-164 e in G. Giordano, Morcone  in documenti e testimonianze,  Comune di Morcone, MCMLXXXI, pp. 103-104.

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