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MALEDIZIONI IN VERNACOLO NAPOLETANO DA OLTRE VENTI SECOLI FA AI GIORNI NOSTRI

Rosario Di Lello|In questa rubrica,  s’è scritto di “Puozze avé ‘na petriata, (1) qui si dirà di altri Puozze, cioè “Possa, tu ….” e perciò di altre imprecazione che, in vernacolo napoletano, ma comune in tutta la regione, pare non siano altro che l’eco di maledizioni, giunte ai giorni nostri, da molto, molto lontano, attraverso millenni

Nell’ Evo Antico, i Sanniti erano dediti a rituali a base di superstizione e, quanto a pregiudizi, i Romani e ancor prima i Greci non furono da meno, anzi, al riguardo, esercitarono non poca influenza sulla cultura sannitica. Presso i Greci e presso i Romani la credenza vana trovava posto abituale anche nelle relazioni quotidiane tanto è vero che la gente, nelle occasioni in cui non veniva alle mani col prossimo, almeno lo rendeva oggetto di maledizioni, auspicandogli le peggiori sciagure. (2)

Quelle legature magiche –anche così erano definite le maledizioni– finalizzate al conseguimento di risultati patologici, morte compresa, sembrano essersi perpetuate, per più di venti secoli, fino ad oggi, in certe attaccature finalizzate a patologie generiche e specifiche. Al riguardo, per esempio, va ricordato che in Campania era comune la generica espressione latina: “Aegrotes ! ”, (3) ossia: “che tu possa ammalarti!”, la quale sembra rivivere, nella invettiva: “Te pozza venì ‘nu tocco!” cioè un colpo apoplettico o un accidente (4)

Altrettanto comuni erano, nell’Evo Antico, quelle che, più in particolare, sollecitavano lo stritolamento del corpo, la frattura delle ossa, il soffocamento nonché infermità a carico delle mani e dei polmoni e, perfino, la morte; esse, al presente, sembra rivivano nelle imprecazioni che, sempre in dialetto, invocano la frattura ossea mediante lapidazione: “Puozz’avé ‘n’ora ‘e petriata!” o per mezzo dell’altrettanto comune bastonatura: “Puozz’avé ‘a sciorta d’’o llino!”; lo strangolamento: “Puozz’avé ‘na  funa ‘ncanna!” o: “Puozz’avé ‘a sciorta d’’o casecavallo!”; infermità degli arti superiori: “Puozze ciunca ‘e mmane!” nonché  malattie dei polmoni con emottisi: “Puozze jettà ‘o sango!”. Infine –è il caso di dire–, ancora oggi vi sono formule che prevedono finanche la morte: “Puozze murì!”,  a prescindere dal luogo, dal mezzo e dal tempo, cioè: “‘ncopp’a ‘na via!” o “acciso!” o “‘e subbeto! ” o, in modo diverso pregno di sadismo:  “puozze murì ‘e stient’! ”. (5)

Ad  altra soluzione, ma, è ovvio, non ai maccheroni bolliti, allude la frase: “Puozze sculà!”, quanto mai diffusa nella regione. Secondo qualche Studioso, è una imprecazione equivalente al generico “Possa [tu] morire!”.  Qualche altro Autore è del parere che il modo di dire è assimilabile, più nel dettaglio, a: “Che tu possa morire e, dopo morto, essere messo a scolare come i cadaveri delle catacombe”; (6)  dunque –se si può dire– scolatura, sì, ma post mortem. Infatti  “prima dell’editto di St. Claud (1804), quando la sepoltura dei cadaveri trovava luogo nelle chiese, alcuni edifici sacri (come le catacombe di S. Gaudioso alla Sanità o la chiesa dell’Annunziata nel castello d’Ischia), erano dotati di sedili forati  (cantarelle) sui quali il defunto veniva posto a sedere perché il corpo si disseccasse espellendo tutti gli umori che ne avrebbero determinato la putrefazione e che, viceversa, il cadavere scolava attraverso il suddetto foro“. (7) E tanto accadeva anche nei cimiteri costruiti, all’epoca, nei comuni del Sannio, come, ad esempio, in quello vecchio di San Potito Sannitico.

La frase, peraltro, sembra prestarsi anche ad una terza interpretazione.   Vediamola. Pare infatti che a scolare si possano attribuire oltre i detti significati di defungere e, rispettivamente, perdere liquami post mortem, dopo morto –attraverso il buco anatomico inferiore–, anche il disidratarsi conseguente ad una condizione patologica che, umiliante, ingravescente e a più o meno lenta evoluzione, si concluda, ma non necessariamente, nell’exitus; come a dire, appunto: “Possa tu scolare fino alla morte!” ossia, più chiaramente: “Possa tu consumarti lentamente –andartene in consunzione, come se perdessi liquidi– finché –ma non necessariamente– morte non sopraggiunga!”.

Del resto, è stato scritto circa il verbo Sculare : “(…) intrans, il cader giù poco a poco del liquido contenuto in checchessia. Scolare ed anche colare –lo spogliarsi a goccia a goccia della parte liquida, Colare ed anche Colarsi–”, ma subito è stato aggiunto: “figur. de’ tisici, Consumarsi, Andarsene in consunzione”. (8)

   Non è improbabile , da ultimo, che  qualcuna delle citate maledizioni sia stata pronunciata anche all’inizio o nel corso o al termine di una fattura.

Ma questo è altro argomento e se ne dirà in altra occasione

__________

 

1- Cfr. R. Di Lello La pietriata,  in “Quattro passi nella Storia”,  Casertasera.it (03/01/2018).  2- Cfr. R. Di Lello, Schegge di antiche culture /1, in  “Clarus”, Piedimonte Matese, Diocesi di Alife-Caiazzo, II, 3, (2002), p. 18. 3- Cfr. CIL, IV, 3775, in R.A. Staccioli, Manifesti elettorali nell’antica Pompei, Milano, BUR, pp. 70-71.  4- Cfr. R. Andreali, Vocabolario napoletano italiano, Torino 1887, Napoli, S. Di Fraia, 1997, p. 431.  5- Cfr. R. Di Lello, Schegge, cit. 6- V. Gleijeses, Proverbi di Napoli, Napoli, SEN, 1978, p. 322.  7- S. Zazzera, Modi di dire napoletani, Roma, Newton-Compton, 1996, p. 63.  8- R. Andreoli, Vocabolario, cit.,  p. 367.

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