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LA TIPICITA’…”DEL CACIO”, IN TERRA DI LAVORO, E LE NUOVE REGOLE D’ORO

ROSARIO DI LELLO|Ai giorni nostri, nelle sagre di piena estate,  specialmente d’agosto, va tanto di moda –come oggi si dice– seguire percorsi eno-gastronomici alla riscoperta di antichi sapori tipici locali, ad esempio del vino, dei latticini, delle carni e dell’olio. S’è scritto di pregi e…non soltanto, del vino, (1) della mozzarella (2) e delle carni suine (3)  Qui si dirà del formaggio, rammentando innanzi tutto e seppure per sommi capi che, fatto in tipi diversi, con latte di mucca, di capra o di pecora, viene venduto e consumato fresco o, perché acquisti particolari qualità, più o meno stagionato.

A voler credere alla pubblicità e al giudizio dei soliti esperti, di parte, è come se questo o quel centro abitato  della provincia possa vantare, nei caci suoi, generi esclusivi e migliori.

Invece, i prodotti del singolo paese costituiscono veramente altrettante tipicità locali? e se venissero realizzati allo stesso modo in cui  lo erano in passato, potrebbero essere sempre motivo di vanto?

Per quel che, nel caso particolare, concerne il formaggio ovino, un documento di circa due secoli or sono ci informa al riguardo. (4) Tra l’altro, dopo aver premesso che “il cacio preparato col latte assoluto di pecora è in se stesso buono”, passa a illustrare, nelle seguenti nove regole, la preparazione tipica –adesso, è il caso di dirlo– di questa prelibatezza:

1- Il pastore mungeva le pecore a sera e sospendeva il contenitore, nella capanna o nella casa rustica, avendo cura di coprirlo bene. La mattina seguente mungeva di nuovo.

2- Versava poi il latte da un recipiente nell’altro, servendosi di un “vaso traforato”, che, per lo più consistente in una grossa corteccia di albero piegata a forma d’imbuto, veniva riempita di felci perché funzionasse da filtro.

3- Dava “un picciol grado di calore”, e intiepidiva tanto il latte munto la sera quanto quello munto di fresco, ”separatane prima una discreta quantità da servire per le ricotte”.

4- Scioglieva quindi il caglio nell’acqua, e “colandolo per le felci come il Latte” lo aggiungeva alla massa nella dose sufficiente alla coagulazione. Il caglio era stato “tirato dagli agnelli lattanti ammazzati nell’anno antecedente”. Appena versato il caglio, mescolava ben bene la massa del latte “con un bastone ramoso, detto frasca”; poi la copriva, o la lasciava finché si rapprendesse tanto da potere appena “sostenere la frasca”; il coagulo veniva definito “quagliata giovane”.

5- Ridotto il latte in questo stato il pastore cominciava “a rompere con la frasca il coagulo, voltando di continuo” fino a quando non fosse “comparso alcun pezzetto unito”.

6- Di seguito, con lo stesso bastone prima, e con le mani poi, “volta(va) ma lentamente affine di riunire nel fondo tutte le molecole, o piccole particelle di cacio”; poi le restringeva nel detto vaso,  e le deponeva dentro le forme di giunchi disposte sopra una tavola inclinata e scanalata all’intorno perché “lo Scasciato” potesse colare in una tinozza sottostante la tavola. Lo Scasciàto  altro non era che il “primo siero per non confonderlo col secondo” di nessun uso.

7- Riempite le forme, calcava il cacio colle mani e ne aggiungeva via via dell’altro, sempre pressandolo, al fine di meglio unire “le molecole” ed espellere “ lo scasciàto”.

8- Portata a termine questa operazione disponeva le forme “o in una tina, o nel luogo destinato per la cascina”; vi spargeva sopra una piccola quantità di sale e lasciava che continuassero a colare.

9- Il giorno seguente, toglieva il cacio dalle forme, lo “maneggiava(va) col sale” e lo esponeva “al fumo di legna” che, però, non facesse vampa  né fuoco gagliardo.

“Con questo metodo”,–aggiunge il documento, “il cacio di pecora riesce di eccellente sapore, ed è ricercato”. Ma? “Ma ben pochi sono quelli che lo preparano in questa guisa. Da per tutto si mischia il Latte Caprino al pecorino, donde risulta il cacio di cattiva qualità, e poco piacevole a mangiarsi. (…) Alcuni mischiano al latte pecorino il vaccino; si ha miglior cacio, ma questa miglioria non compensa il discapito che si fa sul differente prezzo. Si adotta da pochi questo metodo, che non può avere lunga durata, a solo scopo di accreditare i proprj formaggi”.

E allora? A quanto pare, già nel XIX secolo i caci di Terra di Lavoro non godettero di soverchia stima, quanto a pregio e a tipicità locale. Oggi, per poter essere considerati tipicità tradizionale di tutto rispetto, dovrebbero, pare –razze ovine e pascoli, di permanenza o di transumanza, a parte– esser prodotti, punto per punto, secondo tradizione, ossia nella osservanza del metodo descritto. Se così fosse, dovrebbero essere ritenuti tipicità di una vasta zona, ad esempio del Matese Campano o del Taburno o del Monte Maggiore, se non anche di tutto il territorio che un tempo appartenne alla “Provincia di Terra di Lavoro”, non già esclusiva di questo o di quel centro abitato.

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  1- R. Di Lello, La “tipicità” del vino in Terra di Lavoro, in Curiosando nella Storia, “il Giornale di    Caserta”, Caserta, Dossier, XV, 272 (2007) p. 18. 2- R. Di Lello, La Mozzarella tipica in Terra di Lavoro, in “il Giornale di Caserta”, Dossier, XV, 300 (2007)  p. 18.  3- R. Di Lello., Porci e troie in Terra di Lavoro e antichi sapori”… di carni andate a male, in “Quattro passi nella Storia”, Casertasera.it 30 /10/2017. 4-  Relazione  in C. Cimmino, “La Statistica del Regno di Napoli del 1811 (…) per Terra di Lavoro, Caserta, ISRI, 1978, pp.  145-146–

 

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